E quindi?

Poi capita che succeda una piccola cosa, verosimilmente senza importanza, sicuramente di minor valore rispetto a tanti altri accadimenti. Piccola, ma con la caratteristica di far collassare il castello di giustificazioni che avevi consapevolmente inventato di sana pianta per accettare quello che in realtà non è ne accettabile ne giustificabile. E quindi?

Job

Domani il mio amico Job torna in Senegal. Job sta da anni fuori dal mio supermercato. Sempre. Con il caldo. Con la pioggia. Con il freddo. E il freddo non piace proprio al mio amico Job. Job è il sorriso timido con cui ringrazia per le piccole premure che riceve. Job è la riservatezza che gli ha sempre impedito di rivelarmi se preferisce mangiare la pasta o il riso. Job è dignità. E io sono davvero felice che possa tornare a casa. Mi mancherai Job e ti auguro buona fortuna, la meriti.

Mamma

Non ci avevo pensato quando ho scelto di andare a prenderla. Pare il delirio di un pazzo, ma un cane c’è. Sempre.

Non ha mai le balle girate.

È SEMPRE felice di stare con te.

Non ho mai messo in conto quanto dolore ci sarebbe stato nel distacco. Mi accorgo con sgomento che soffro più per tabata rispetto a quello che ho provato per mia mamma… sembra una bestemmia paragonare una persona ad un animale… ne sono consapevole.

Nonostante io abbia avuto, quando era viva, la capacità di capire che prima di essere mia madre era una PERSONA, con tutto quello che ciò implica, nessuno in vita mia mi ha suscitato una simile rabbia.

Rabbia per quello che io mi aspettavo dall’archetipo MAMMA e che lei non è stata.

Costringendomi ad essere madre di mia madre.

Costringendomi ad essere madre di me stessa.

Senza capirne la ragione, che ho compreso solo in età estremamente adulta.

L’origine di tutti i miei problemi, ma anche la fonte della persona che sono ora e francamente non mi dispiaccio poi tanto.

E con altrettanto sgomento mi scopro amare visceralmente la stessa cosa che amava lei: le parole.

Forse più di ogni altra cosa amo le parole.

E lei aveva sempre il dizionario aperto.

Sempre.

Sul tavolo del soggiorno.

È così anche sul mio.

Vita e Amore

Vita. Vita è prepotente, non serve farle spazio, lo prende da sè. Non occorre aprirle la porta, la spalanca da sola. Vita è una valigia. A volte una zavorra inamovibile, a volte una sacca da mare con giusto le ciabatte e l’asciugamano per correre a fare il bagno. A volte la tua Vita se ne va dentro una valigia.

Amore invece è così fragile. Ha mille esigenze. Va coccolato, coltivato, nutrito, spolverato, alimentato, rispettato. Amore non grida le sue esigenze, ma richiede delicatamente attenzioni. Un attimo prima è lì, caldo e palpitante, un attimo dopo non me resta che il ricordo.

Vita viaggia bene anche da sola. Per Amore serve essere in due.

Vita e Amore possono percorrere la stessa strada, ma servono Neuroni e Cuore per non farli litigare. Vita corre e consuma, Amore ha bisogno di viaggiare piano e di riposare. Vita, altre volte, non ce la fa ad andare avanti e allora è Amore che delicatamente la prende sottobraccio.

Neuroni e Cuore cercano di spiegare a Vita e Amore che c’è spazio e tempo per entrambi. Vita, ogni tanto, deve trovare tempo per Amore e Amore, ogni tanto, deve lasciare che Vita vada più veloce. Vita, ogni tanto, deve lasciare che sia Amore a guidare e Amore, ogni tanto, deve lasciare che Vita prosegua da sola.

É un gioco di equilibri e, si sa, gli equilibrismi son giusto per i funamboli. Richiedono mestiere, costanza, impegno. E Neuroni e Cuore, invece, spesso si distraggono. Accade così che Vita prenda baldanzosa il sopravvento. Salta, balla, gira, tira, spinge. Il tempo passa e Vita non se rende conto, presa com’è nelle sue mille attività. E accade così che Amore muore.

Il giorno della marmotta

Lo hanno chiuso lì dentro da stamattina alle 8. Ci sono altre persone con lui, ha chiesto “cosa ci facciamo qui”, ma gli hanno risposto che quello che comanda oggi non c’è. Forse verrà domani, forse più avanti.

Gli hanno fatto togliere la giacca e la sciarpa e lo hanno fatto sedere. È qui ad aspettare. Ha fatto due passi su e giù per la stanza. Anche gli altri, di tanto in tanto, si alzano. Scambiano due parole, ma lui non li capisce sempre, crede parlino un’altra lingua, anche se a tratti simile alla sua.

A mezzogiorno suona una sirena che squarcia il brusio del corridoio; immagina indichi la distribuzione del pasto, infatti tutti si incamminano verso il locale mensa.

Poi, terminato il pranzo, tutti di nuovo seduti in questa stanza.

Il tempo scorre a piccoli passi.

Il sole inizia tramontare, c’è sempre meno luce, i visi dei suoi compagni sono sempre più simili a quelli di spettri pallidi, smunti, allucinati. Lo spaventa il pensiero che il suo volto possa avere la stessa espressione spenta e opaca.

No, non era in prigione. Ma doveva fare uno sforzo per ricordarsi che era in ufficio.

#fantasia #nessunriferimentoacoseluoghipersonerealmenteesistite #raccontoinventato

#quasinano

Labirinto

L’aveva detto che lì non ci voleva andare. L’aveva gridato, perfino. Sbattendo i pugni, addirittura. E invece si era ritrovata proprio lì. Si era lasciata condurre.
Non c’era stata una grande consapevolezza in quel viaggio. O forse sì e aveva lasciato fare. Non aveva più troppa importanza.
Quel che sentiva adesso però, era rabbia. Verso se stessa per essersi lasciata trascinare, verso di lui per non essersi fermato prima, per non aver cambiato strada.
Lei lì non ci voleva proprio stare. Non le piaceva nulla di quel luogo. Non riconosceva i colori, gli odori, nemmeno le parole. Parevano quelle di una lingua straniera.
Avrebbe voluto tornare indietro, ma aveva perso il senso dell’orientamento. Ogni strada pareva un vicolo cieco. Un labirinto in cui trovava solo se stessa. E nessun altro.

Zia Emilia

Da piccola trascorrevo molti pomeriggi con la Zia Emilia. Non so perché mi avessero insegnato a chiamarla Zia; che io ricordi, non era parente di nessun membro della nostra sfilacciata famiglia. O forse ricordo male, ma quelli a cui potrei chiedere non ci sono più o non sono più in grado di ricordare.

Era una signora dal viso scavato, l’acconciatura cotonata e occhiali enormi, le lenti come televisori, che, per un bizzarro gioco di deformazioni, rendevano i suoi occhi piccolissimi.

Era sposata con lo Zio Libero, anche lui omaggiato del titolo parentale, rendendo così ancor più difficile ricostruire chi dei due avesse un qualche flebile legame di sangue con il gruppo familiare. Di lui ricordo degli incredibili pantaloni a zampa beige e il vezzo continuo di tirar fuori dal taschino un piccolo pettine con cui si sistemava in continuazione i corti capelli neri, tirandoli tutti all’indietro. A ripensarci ora, è probabile che li tingesse perché nella mia memoria gli Zii erano anziani e di certo quella chioma corvina non poteva essere naturale. O forse, gli Zii non erano così vecchi, ero io ad essere una bambina.

Si mormorava che la Zia Emilia non avesse potuto avere figli a causa di una operazione. Una una spiegazione così sommaria data ad una me di 10 anni aveva alimentato le mie fantasie più inquietanti. Mi immaginavo che avesse un buco al posto della pancia, un grande vuoto in cui nessun bimbo avrebbe potuto crescere e che la costringeva a non andare mai al mare per non far vedere a tutti questa terribile voragine. E in effetti, al mare, non mi ci hanno mai portata.

I pomeriggi trascorsi assieme erano sempre caldi, bollenti, desertici. Quelli in cui la città si svuota per le vacanze e mia madre si rintanava in casa, ammalata dal sole e dalla sola idea dell’esposizione allo iodio dell’aria di mare, che, mi spiegava, era veleno per i suoi nervi fragili. Oppressa dai sensi di colpa per costringermi ad estati da carcerata, mi affidava alle cure degli Zii per qualche ora di svago. La versione ufficiale era, però, diversa: bisognava accontentare la Zia Emilia, appagarla per qualche ora con la presenza di un bambino che lei accudiva con quella gioia e quell’entusiasmo che non aveva potuto regalare ad un figlio suo, avendo questo buco nella pancia. Mi sentivo come un lecca lecca per adulti. Bave di affetto non richiesto mi avvolgevano in quell’afa irrespirabile, rendendola ancora più vischiosa.

A volte, mi portavano in Carso, a Pesek, in una Gostilna a pochi metri dal confine. I tavoli di legno erano all’ombra di un bel pergolato che regalava ombra e frescura, bevevo un’aranciata e, mentre gli Zii chiacchieravano, davo la caccia alle formiche.

Altre volte invece, si restava in città e mi portavano in visita a casa di una loro amica che abitava vicino al Giardino Pubblico, la signora Bruna. Brunetto era il figlio della signora Bruna, un ragazzetto poco più grande di me, 12 anni o giù di lì. Non mi erano del tutto chiari nemmeno alcuni aspetti di questa parentela: come mai la mamma ed il figlio avevano lo stesso cognome? Come mai la mamma era vecchia come gli Zii e Brunetto andava appena in seconda media? Erano dubbi che tormentavano la mia ingenuità di bambina. Non riuscivo a trovare nessuna spiegazione che avesse un senso, finché un giorno la Zia Emilia, che, evidentemente, non riusciva un granché bene a conservare i segreti delle famiglie altrui come faceva invece con i suoi, mi rivelò in modo pomposo e sussiegoso che, in realtà, la Bruna era la nonna di Brunetto, madre di suo padre, che era venuto a mancare, mentre la vera mamma, dopo la morte del marito, aveva deciso di dimenticare il suo passato scegliendo un nuovo compagno, una nuova vita e, forse, un nuovo figlio. Questa storia, specificò, non doveva per nessun motivo essere rivelata al povero Brunetto che aveva già patito la perdita del papà e non avrebbe potuto sopportare anche la perdita della mamma.

Ebbene, questa vicenda mi offrì l’opportunità di dimostrarmi crudele. Quando venni portata di nuovo nella casa vicino al Giardino Pubblico, la prima cosa che feci quando rimasi da sola a giocare con Brunetto nella sua stanza affacciata sugli alberi, fu di uscirmene con la verità: “Brunetto, ma tu lo sai che quella è tua nonna??”. Del poi ricordo solo che lui corse dalla sua nonna e che io, subito dopo, venni portata via e non tornai mai più.

Nessuno parlò mai più di quell’episodio.

A me, di tanto in tanto, capita di ripensarci.

Non sono mai riuscita a spiegarmi perché lo feci.

Forse volevo solamente sperimentare la cattiveria.

Alle medie avevo una professoressa che indossava le auto reggenti, quando incrociava le gambe si scorgeva il pizzo nero dell’elastico. Sconvolta chiesi a mia madre perché si vestisse così per venire al lavoro, dopotutto era una professoressa in una scuola femminile! Mia madre, col tono che usa sempre quando pensa di parlare di ovvietà, affermò che le donne non si vestono bene solo per piacere agli uomini, ma anche per piacere a se stesse.

Le donne non sono proprietà di nessuno

Quanti anni ci vogliono per cambiare la mentalità di un popolo?

In Italia Fino al 1963 tuo marito poteva picchiarti quando e come voleva. Della tua vita non importava a nessuno.

Fino al 1968 se tradivi tuo marito finivi in galera. Dei tuoi sentimenti non importava a nessuno.

Fino al 1975 tuo marito esercitava la sua potestà su di te. Sceglieva al posto tuo. Dei tuoi desideri non importava a nessuno.

Fino al 1981 era in vigore il delitto d’onore. Se tuo marito era arrabbiato con te, poteva ucciderti rischiando solo tre anni di carcere. Se lo avessi ucciso tu, in galera ci saresti rimasta per sempre. Della tua esistenza non importava a nessuno.

Fino al 1996 la violenza sessuale era considerata un reato contro la morale e non contro la persona. Della tua dignità non importava a nessuno.

Senza parole

Lo scrutò facendogli scivolare addosso lo sguardo da sotto in su.

Lui aveva imparato che quel cipiglio equivaleva più o meno ad un: “che cazzo stai facendo?”.

Da qualche mese ormai lei andava avanti solo a occhiate e spallucce. Aveva smesso di parlare. Capitava che non avesse nemmeno voglia di ascoltare e allora si girava e con passi tranquilli cambiava stanza.

Semplicemente non parlava più. Annuiva, sorrideva, inclinava la testa ora a destra ora a sinistra, sollevava le spalle o faceva no con il dito, ma non una sillaba usciva più dalle sue labbra.

All’inizio lui aveva creduto che fosse una delle sue trovate per farlo innervosire. Una nuova crudele angheria, giusto per fargli dispetto. Ma dopo i primi tre giorni il silenzio si fece assordante. Iniziò a supplicarla di spiegargli che cosa stesse succedendo. Cercó di abbracciarla, di coccolarla, ma lai si scansava. Le chiese con le lacrime agli occhi di fargli capire qualcosa, poi si arrabbiò. Gli abbracci diventarono strattoni, le lacrime urla da sgolarsi, ma lei niente. Lo guardava di sbieco, completamente disinteressata ai suoi spettacoli.

Lui l’aveva portata sia da un otorino che da un neurologo per accertarsi che il problema non fosse di natura fisica. I medici l’avevano rassicurato. Tutto funzionava perfettamente: orecchie, cervello e corde vocali erano in perfetta salute. Sentiva benissimo e avrebbe potuto articolare tutte le note del pentagramma.

La diagnosi accrebbe in lui la frustrazione e la rabbia per questa assurda situazione. Non poteva più rifugiarsi nel pensiero che lei stesse male. Lei stava benissimo. Semplicemente non voleva più parlare.

La tormentava con domande, richieste, provocazioni; gliele ripeteva mille volte, gliele gridava nelle orecchie, ma lei restava impassibile.

Una sera, rincasando dall’ufficio, sentì fin dal pianerottolo una risata fragorosa. Gli si aprì il cuore, era lei, conosceva quel tintinnio cristallino con cui sorrideva al mondo. Era guarita!

In quel preciso istante, lei aprì la porta. Stava uscendo con una grossa borsa da viaggio. Lo scansò continuando a ridere. Aveva le lacrime agli occhi.

Lui la guardò allontanarsi. Spalancò con un calcio la porta rimasta socchiusa. Un grosso dito medio sulla parete d’ingresso dipinto con la vernice rossa gli avrebbe fatto compagnia fino all’arrivo dell’imbianchino.