Lo hanno chiuso lì dentro da stamattina alle 8. Ci sono altre persone con lui, ha chiesto “cosa ci facciamo qui”, ma gli hanno risposto che quello che comanda oggi non c’è. Forse verrà domani, forse più avanti.
Gli hanno fatto togliere la giacca e la sciarpa e lo hanno fatto sedere. È qui ad aspettare. Ha fatto due passi su e giù per la stanza. Anche gli altri, di tanto in tanto, si alzano. Scambiano due parole, ma lui non li capisce sempre, crede parlino un’altra lingua, anche se a tratti simile alla sua.
A mezzogiorno suona una sirena che squarcia il brusio del corridoio; immagina indichi la distribuzione del pasto, infatti tutti si incamminano verso il locale mensa.
Poi, terminato il pranzo, tutti di nuovo seduti in questa stanza.
Il tempo scorre a piccoli passi.
Il sole inizia tramontare, c’è sempre meno luce, i visi dei suoi compagni sono sempre più simili a quelli di spettri pallidi, smunti, allucinati. Lo spaventa il pensiero che il suo volto possa avere la stessa espressione spenta e opaca.
No, non era in prigione. Ma doveva fare uno sforzo per ricordarsi che era in ufficio.
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