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Poi capita che succeda una piccola cosa, verosimilmente senza importanza, sicuramente di minor valore rispetto a tanti altri accadimenti. Piccola, ma con la caratteristica di far collassare il castello di giustificazioni che avevi consapevolmente inventato di sana pianta per accettare quello che in realtà non è ne accettabile ne giustificabile. E quindi?
Zia Emilia
Da piccola trascorrevo molti pomeriggi con la Zia Emilia. Non so perché mi avessero insegnato a chiamarla Zia; che io ricordi, non era parente di nessun membro della nostra sfilacciata famiglia. O forse ricordo male, ma quelli a cui potrei chiedere non ci sono più o non sono più in grado di ricordare.
Era una signora dal viso scavato, l’acconciatura cotonata e occhiali enormi, le lenti come televisori, che, per un bizzarro gioco di deformazioni, rendevano i suoi occhi piccolissimi.
Era sposata con lo Zio Libero, anche lui omaggiato del titolo parentale, rendendo così ancor più difficile ricostruire chi dei due avesse un qualche flebile legame di sangue con il gruppo familiare. Di lui ricordo degli incredibili pantaloni a zampa beige e il vezzo continuo di tirar fuori dal taschino un piccolo pettine con cui si sistemava in continuazione i corti capelli neri, tirandoli tutti all’indietro. A ripensarci ora, è probabile che li tingesse perché nella mia memoria gli Zii erano anziani e di certo quella chioma corvina non poteva essere naturale. O forse, gli Zii non erano così vecchi, ero io ad essere una bambina.
Si mormorava che la Zia Emilia non avesse potuto avere figli a causa di una operazione. Una una spiegazione così sommaria data ad una me di 10 anni aveva alimentato le mie fantasie più inquietanti. Mi immaginavo che avesse un buco al posto della pancia, un grande vuoto in cui nessun bimbo avrebbe potuto crescere e che la costringeva a non andare mai al mare per non far vedere a tutti questa terribile voragine. E in effetti, al mare, non mi ci hanno mai portata.
I pomeriggi trascorsi assieme erano sempre caldi, bollenti, desertici. Quelli in cui la città si svuota per le vacanze e mia madre si rintanava in casa, ammalata dal sole e dalla sola idea dell’esposizione allo iodio dell’aria di mare, che, mi spiegava, era veleno per i suoi nervi fragili. Oppressa dai sensi di colpa per costringermi ad estati da carcerata, mi affidava alle cure degli Zii per qualche ora di svago. La versione ufficiale era, però, diversa: bisognava accontentare la Zia Emilia, appagarla per qualche ora con la presenza di un bambino che lei accudiva con quella gioia e quell’entusiasmo che non aveva potuto regalare ad un figlio suo, avendo questo buco nella pancia. Mi sentivo come un lecca lecca per adulti. Bave di affetto non richiesto mi avvolgevano in quell’afa irrespirabile, rendendola ancora più vischiosa.
A volte, mi portavano in Carso, a Pesek, in una Gostilna a pochi metri dal confine. I tavoli di legno erano all’ombra di un bel pergolato che regalava ombra e frescura, bevevo un’aranciata e, mentre gli Zii chiacchieravano, davo la caccia alle formiche.
Altre volte invece, si restava in città e mi portavano in visita a casa di una loro amica che abitava vicino al Giardino Pubblico, la signora Bruna. Brunetto era il figlio della signora Bruna, un ragazzetto poco più grande di me, 12 anni o giù di lì. Non mi erano del tutto chiari nemmeno alcuni aspetti di questa parentela: come mai la mamma ed il figlio avevano lo stesso cognome? Come mai la mamma era vecchia come gli Zii e Brunetto andava appena in seconda media? Erano dubbi che tormentavano la mia ingenuità di bambina. Non riuscivo a trovare nessuna spiegazione che avesse un senso, finché un giorno la Zia Emilia, che, evidentemente, non riusciva un granché bene a conservare i segreti delle famiglie altrui come faceva invece con i suoi, mi rivelò in modo pomposo e sussiegoso che, in realtà, la Bruna era la nonna di Brunetto, madre di suo padre, che era venuto a mancare, mentre la vera mamma, dopo la morte del marito, aveva deciso di dimenticare il suo passato scegliendo un nuovo compagno, una nuova vita e, forse, un nuovo figlio. Questa storia, specificò, non doveva per nessun motivo essere rivelata al povero Brunetto che aveva già patito la perdita del papà e non avrebbe potuto sopportare anche la perdita della mamma.
Ebbene, questa vicenda mi offrì l’opportunità di dimostrarmi crudele. Quando venni portata di nuovo nella casa vicino al Giardino Pubblico, la prima cosa che feci quando rimasi da sola a giocare con Brunetto nella sua stanza affacciata sugli alberi, fu di uscirmene con la verità: “Brunetto, ma tu lo sai che quella è tua nonna??”. Del poi ricordo solo che lui corse dalla sua nonna e che io, subito dopo, venni portata via e non tornai mai più.
Nessuno parlò mai più di quell’episodio.
A me, di tanto in tanto, capita di ripensarci.
Non sono mai riuscita a spiegarmi perché lo feci.
Forse volevo solamente sperimentare la cattiveria.
Le donne non sono proprietà di nessuno
Quanti anni ci vogliono per cambiare la mentalità di un popolo?
In Italia Fino al 1963 tuo marito poteva picchiarti quando e come voleva. Della tua vita non importava a nessuno.
Fino al 1968 se tradivi tuo marito finivi in galera. Dei tuoi sentimenti non importava a nessuno.
Fino al 1975 tuo marito esercitava la sua potestà su di te. Sceglieva al posto tuo. Dei tuoi desideri non importava a nessuno.
Fino al 1981 era in vigore il delitto d’onore. Se tuo marito era arrabbiato con te, poteva ucciderti rischiando solo tre anni di carcere. Se lo avessi ucciso tu, in galera ci saresti rimasta per sempre. Della tua esistenza non importava a nessuno.
Fino al 1996 la violenza sessuale era considerata un reato contro la morale e non contro la persona. Della tua dignità non importava a nessuno.
Senza parole
Lo scrutò facendogli scivolare addosso lo sguardo da sotto in su.
Lui aveva imparato che quel cipiglio equivaleva più o meno ad un: “che cazzo stai facendo?”.
Da qualche mese ormai lei andava avanti solo a occhiate e spallucce. Aveva smesso di parlare. Capitava che non avesse nemmeno voglia di ascoltare e allora si girava e con passi tranquilli cambiava stanza.
Semplicemente non parlava più. Annuiva, sorrideva, inclinava la testa ora a destra ora a sinistra, sollevava le spalle o faceva no con il dito, ma non una sillaba usciva più dalle sue labbra.
All’inizio lui aveva creduto che fosse una delle sue trovate per farlo innervosire. Una nuova crudele angheria, giusto per fargli dispetto. Ma dopo i primi tre giorni il silenzio si fece assordante. Iniziò a supplicarla di spiegargli che cosa stesse succedendo. Cercó di abbracciarla, di coccolarla, ma lai si scansava. Le chiese con le lacrime agli occhi di fargli capire qualcosa, poi si arrabbiò. Gli abbracci diventarono strattoni, le lacrime urla da sgolarsi, ma lei niente. Lo guardava di sbieco, completamente disinteressata ai suoi spettacoli.
Lui l’aveva portata sia da un otorino che da un neurologo per accertarsi che il problema non fosse di natura fisica. I medici l’avevano rassicurato. Tutto funzionava perfettamente: orecchie, cervello e corde vocali erano in perfetta salute. Sentiva benissimo e avrebbe potuto articolare tutte le note del pentagramma.
La diagnosi accrebbe in lui la frustrazione e la rabbia per questa assurda situazione. Non poteva più rifugiarsi nel pensiero che lei stesse male. Lei stava benissimo. Semplicemente non voleva più parlare.
La tormentava con domande, richieste, provocazioni; gliele ripeteva mille volte, gliele gridava nelle orecchie, ma lei restava impassibile.
Una sera, rincasando dall’ufficio, sentì fin dal pianerottolo una risata fragorosa. Gli si aprì il cuore, era lei, conosceva quel tintinnio cristallino con cui sorrideva al mondo. Era guarita!
In quel preciso istante, lei aprì la porta. Stava uscendo con una grossa borsa da viaggio. Lo scansò continuando a ridere. Aveva le lacrime agli occhi.
Lui la guardò allontanarsi. Spalancò con un calcio la porta rimasta socchiusa. Un grosso dito medio sulla parete d’ingresso dipinto con la vernice rossa gli avrebbe fatto compagnia fino all’arrivo dell’imbianchino.
La matematica dei bambini
C’è una bambina che non trova più il suo giocattolo preferito (che da ora chiameremo GP).È Disperata (quelle Disperazioni che meritano la maiuscola, quelle di cui sono capaci solo i bambini).
Lo vuole subito il suo GP.
Si tratta di un bastone che la trasforma in una guerriera combattiva e invincibile.
“Non trovo più GP”, dice alla mamma con una nota di angoscia nella voce.
Il tempo T che un bimbo dedica a queste situazioni dovrebbe corrispondere all’Amore per GP elevato alla potenza della Disperazione.
Se ne va, quindi, un paio di minuti nella sua stanza per cercarlo.
Poi torna dalla mamma, chiedendo aiuto in un crescendo di Disperazione.
“Prova a guardare sotto al divano, GP ama nascondersi lì sotto!”.
La bambina sbuffa: “ Ci ho già guardato sotto al divano!”.
La madre insiste: “Dai, prova a guadare meglio!”.
La figlia scompare.
Ritorna pochi secondi dopo con un sacchetto in mano.
“Che c’è lì dentro?”, chiede la mamma.
“Ecco, mamma, qui ci sono dei soldini che ti darò quando avrai trovato il mio GP!!”.
La bimba aveva già imparato che la D è più profittevole se anziché rappresentare la Disperazione, la si intende come Denaro e che il Denaro ha il potere di accorciare incredibilmente il fattore Tempo.
La mamma offrì il Rifiuto come risultato. E la figlia capì che, innanzitutto, serve l’Impegno.
Trasparenza
TRASPARENZA
Ormai aveva perso tutto.
Erano trascorse alcune settimane da quando era iniziata l’angoscia. All’inizio, c’era stato solo un senso di disagio. Capitava ogni tanto, ma poi durante la giornata non ci pensava più. Il tempo scorreva a ritmi prestabiliti e costanti. Quando arrivava sera, non ricordava nemmeno. Si coricava serena. Il Gatto sulla pancia, un libro, il computer acceso sul letto, una birra svampita e calda sul comodino. Un disordine confortevole, che diventava perfetto quando le briciole dei biscotti che sgranocchiava mentre seguiva distrattamente le notizie del tiggì si spargevano dappertutto. Bastava qualche notte di riposo tranquillo e la sua vita pareva quella di sempre.
I primi a sparire erano stati i biglietti per il viaggio a Firenze.
Era tardi, aveva finito di riempire il trolley all’ultimo secondo. Non era sua abitudine fare tutto in fretta. Di solito, quando doveva partire, pianificava con attenzione i tempi. Non le piaceva per nulla anche solo rischiare di essere in ritardo. Aprì il cassetto della scrivania, era lì che li aveva riposti. Sollevò l’ultima copia di Wired e sparpagliò un mucchio di bollette. Non c’erano. O meglio: non c’erano più. Perchè erano stati lì, ne era certa. Niente. Nulla. Frugò e rovistò. Chiuse il cassetto, sbattendolo con un gesto secco. Si guardò intorno smarrita. Era tardi, mancavano meno di venti minuti alla partenza. Si torturava chiedendosi come avesse potuto perdere in questo modo la nozione del tempo e dove diamine fossero finiti i biglietti. All’improvviso i margini della stanza cominciarono a sfumare, come se stessero per dissolversi. Il suo battito cardiaco aumentò, aveva paura di sentirsi di male, doveva pensare solo a sbrigarsi, accidenti! I biglietti, quei maledetti biglietti! Cominciò a spostarsi velocemente da una stanza all’altra, rapide occhiate scandagliavano la superficie dei mobili, stava iniziando a sudare, il cuore le batteva in testa. Si fermò, appoggiò entrambe le mani sullo schienale della sedia della cucina. Le mancava il respiro. Pensò che doveva avvisare. Doveva assolutamente comunicare il suo ritardo, magari sarebbe partita col treno successivo, o al massimo, con il primo in partenza il mattino successivo. Afferrò il cellulare che stava sul bancone di granito e iniziò a digitare il numero. Le sue dita si incepparono. Cancellò e ricominiciò. Poi a ad incepparsi fu la memoria, eppure era il numero di sua sorella, l’aveva chiamata milioni di volte. Non riusciva più a capire cosa stesse succedendo. All’improvviso era scossa dai brividi, voleva gridare, ma la sua voce era roca, le corde vocali atrofizzate. Voleva uscire, correre, respirare, chiedere aiuto, ma restava immobile col cuore in gola, i respiri corti e brevi, senza riuscire ad emettere un suono. Fu invasa dal terrore, un terrore animale, di quelli che ti fanno puzzare. E fu così che, un istante prima di perdere il senno, si svegliò. Aprì gli occhi. Era a letto. Poteva sentire il ronfare placido del Gatto ai suoi piedi. Respirò profondamente e provò a schiarirsi la voce. Anche quella era a posto. Tossicchiò e poi mormorò: “Ok. Ok. Un sogno”.
Arrivò in ufficio stanca, i muscoli irrigiditi per la tensione dell’incubo da cui si era risvegliata solo poco prima. Accese il pc, alzò il telefono e cominciò a rampognare il fornitore per l’ennesimo ritardo, tra una sorsata di caffè e i buffi cenni che Stefano le stava facendo dalla scrivania di fronte. Volendo tradurre i suoi gesti, probabilmente la stava invitando a pranzo, visto che stava mimando uno che si ingozza portandosi il cibo alla bocca con due mani. Annuì sorridendo. Quel ragazzo aveva la capacità di farla ridere sempre.
“Avevi una faccia assurda stamattina!” la apostrofò, aprendo la porta del bar in cui d’abitudine ordinavano toast e birrette prima di rimettersi al lavoro.
“Mi sentivo uno straccio, in effetti… Ho fatto un sogno…ma, ora che ci penso, non ne ricordo più nulla” notò con stupore. In effetti, la cosa le pareva davvero strana. Quell’esperienza onirica l’aveva provata, fisicamente ed emotivamente, e ora non ricordava assolutamente niente.
Riprese a chiacchierare con Stefano e rimosse definitivamente l’episodio.
La settimana dopo, verso sera, aveva appuntamento per un bicchiere e due chiacchiere con Laura, amiche da quarant’anni, da sempre e per sempre, come dicevano quando scherzavano sull’inizio della loro amicizia che risaliva, appunto, alla scuola dell’infanzia, quando l’aveva trovata chiusa nella casetta di legno in giardino coi lacrimoni agli occhi, perché la maestra le aveva strappato di mano il suo orsacchiotto preferito. Le aveva offerto un fazzoletto sporco con cui soffiarsi il naso e, da quel momento, il filo di un gomitolo le aveva unite indissolubilmente. A tratti quel filo si accorciava, la frequentazione era assidua ed intensa, a volte invece si allungava a dismisura, si allontanavano, e quel filo allora diventava la garanzia per non smarrire la via. Bastava tirarlo un po’ e si sarebbero precipitate a riavvolgerlo.
Si accorse che erano le sei di sera, aveva ancora una mezz’ora per prepararsi. Infilò i jeans e andò in bagno per lavarsi i denti. Iniziò a spazzolare. Restò scioccata. Le si chiuse all’istante la bocca dello stomaco, il peso di un macigno la opprimeva. I denti si stavano staccando. Tutti. Sputava sangue e denti. Le mani le tremavano. Si voltò e, scossa dai conati, vomitò. “Cosa mi sta succedendo?” pensò. Si distese sul pavimento del bagno. Chiuse gli occhi, nella speranza che riaprendoli, si sarebbe ritrovata per magia al bar con Laura, con un ottimo negroni in mano a sparacchiare sciocchezze in assoluta spensieratezza. Gli occhi, però, non riusciva più a riaprili. Era lì, lucida, voleva spalancare le palpebre, ma non c’era verso. Incollate. Vedeva il bagno intorno a se, l’accappatoio nero appeso alla porta, la collezione di creme sul lavandino e perfino quella piastrella che si era sbeccata la volta che aveva fatto cadere il bruciatore per l’incenso. “Come posso avere gli occhi serrati e allo stesso tempo posare lo sguardo sugli oggetti del mio bagno?”. Le sembrava di impazzire. L’aria non entrava nei polmoni e, di nuovo, come la settimana precedente, voleva urlare, urlare fortissimo, senza riuscirci. Sentiva le lacrime salire e provò ad alzarsi, ma nemmeno il corpo rispondeva alla sua volontà. Poteva vedersi mentre si aggrappava al lavandino, cercando un appiglio per aiutarsi a tirarsi in piedi, ma in realtà quel gesto non lo stava compiendo davvero. Era ciò che desiderava, ma in realtà era paralizzata. Sentì il familiare trillo del cellulare e si tirò su di botto. Era a letto. Evidentemente si era appisolata scorrendo le ultime notizie su Facebook Per prima cosa, passò la lingua sui denti per controllare che fosse tutto a posto. C’erano tutti. Per sicurezza ci fece scorrere sopra anche la punta dell’indice. Esplose in un pianto a dirotto, sconvolta. Rispose all’amica, che stava avvisando dei suoi consueti dieci minuti di ritardo, chiedendole di passare su da lei. In quel momento non se la sentiva proprio di uscire.
Si alzò velocemente, non si sentiva a suo agio a letto, si fece una rapida doccia e si sistemò un po’.
“Ehi, ma che succede?”, fece Laura entrando in casa. Si guardava intorno a cercare le tracce di qualche principio di incendio o di qualche allagamento, convinta che l’allarme che aveva notato nella sua voce quando le aveva telefonato poco prima fosse stato dettato da qualche emergenza di carattere domestico.
“Tutto a posto, davvero.. E’ solo che mi sono addormentata senza accorgermene e ho fatto un sogno…”.
“Dio mio, sei sempre la solita, tu non è che dormi per riposare quando serve, vai in letargo, cavolo!” sorrise ironica.
“Ma no, è che ho fatto un brutto sogno e non riuscivo a levarmelo di dosso” rispose quasi in imbarazzo. All’improvviso si sentiva una sciocca per essersi spaventata così tanto. “Dai, se mi aspetti un attimo, mi metto qualcosa e siamo ancora in tempo per il nostro aperitivo. Mi sento molto meglio ora”, aggiunse.
La serata trascorse tra risate e confidenze, ma, di tanto in tanto, si sorprendeva a controllare di avere ancora tutti denti.
“Vuoi che ti accompagni?”, evidentemente Laura si era accorta della sua inquietudine.
“Non serve, grazie. Anzi, due passi mi faranno bene!”. Lentamente si incamminò verso casa. In realtà non aveva voglia di tornare, l’idea di rimettersi a letto non le piaceva per nulla.
Per prima cosa, entrando in salotto, cercò il Gatto e se lo prese in braccio. “Bravo Gatto, vieni qui, fammi le coccole”, gli sussurrava all’orecchio mentre lo grattava forte sul collo. Si accoccolò sulla poltrona in camera, senza nemmeno spogliarsi, scalciò via solamente gli stivaletti. In quella strana serata decise di farsi accompagnare dalle note di Sakamoto e incredibilmente dopo pochi minuti scivolò in un sonno profondo e ristoratore. L’alba e il mal di schiena la sorpresero che era ancora sulla poltrona.
La vita riprese a scorrere esattamente come prima. O forse non proprio esattamente. Quei sogni le avevano lasciato dei residui collosi addosso. Capitava che si sorprendesse a controllare più volte dove avesse appoggiato le chiavi o le bollette, per imprimersi bene nella memoria la loro posizione. Altre volte si soffermava a rimirarsi i denti allo specchio, come se temesse davvero che potessero cadere tutti assieme.
Il giorno successivo avrebbe avuto una importante riunione di coordinamento con Stefano e il loro responsabile, il dottor Sabini. La sera scivolò nel sonno rapidamente, le palpebre si chiudevano sui versi della Szymborska e lei si abbandonò a un riposo che fu, di nuovo, appagante e rigenerante. Al mattino si svegliò energetica e grintosa. Arrivò in ufficio pochi minuti prima dell’inizio della riunione. Salutò Sara, che stava alla reception, ma quella non la degnò di uno sguardo perché stava già rispondendo a due chiamate contemporaneamente. Stefano e il gran capo erano in sala riunioni per scambiarsi i convenevoli di rito. Si affrettò a lasciare la borsa sulla sua scrivania, nel frattempo chiese a Lara, l’altra collega dell’ufficio acquisti, dove avesse messo il dossier che le serviva per l’incontro. Sara però non le rispose; pensò che doveva aver di nuovo litigato col fidanzato, diede un’occhiata all’etagere e trovò subito il faldone che le serviva. Lo afferrò, ma in quell’istante suonò il telefono.
“Ufficio Acquisti, buongiorno!” rispose con tono professionale.
“Pronto?”
“Sì, buongiorno, mi dica.”
“Pronto?” continuarono a ripetere dall’altro capo del filo, “dev’esserci un problema di linea” sentì aggiungere dallo sconosciuto.
“Io la sento perfettamente…”, ma la comunicazione venne interrotta.
Capitava che i telefoni non funzionassero sempre benissimo, appoggiò la cornetta e si diresse verso la sala riunioni. Dalla porta a vetri vide il gran capo con la faccia piuttosto scura e Stefano rintanato su una sedia come se avesse voluto sprofondarvi dento. Bussò leggermente e, senza attendere una risposta, entrò.
“Buongiorno! Scusatemi per il ritardo.”
Nessuno le rispose. Il dottor Sabini continuava a fissare Stefano, il quale stava sciorinando una serie di dati come una litania.
“A che punto siete arrivati?” aggiunse, ma Stefano continuava concentratissimo nell’elencazione dei numeri. Rimase un po’ perplessa e immaginò che le cose non dovevano essere partite con il piede giusto. Scostò una sedia dal tavolo di cristallo e prese posto anche lei. Nessuno dei due uomini la degnò di un’occhiata e continuarono come se lei non ci fosse.
Quando il collega arrivò ad elencare le cifre della ditta Vecchio, si alzò in piedi.
“Scusatemi, ma qui devo intervenire per una precisazione, visto che questi clienti li ho seguiti in modo particolare”.
Niente. Non successe niente. La ignorarono. Per una frazione di secondo pensò che le stessero facendo uno scherzo, ma la ragione le suggerì che il dottor Sabini non era affatto un buontempone, men che meno sul posto di lavoro. Cominciò a girare intorno al tavolo. Un senso di angoscia crescente le stava montando dentro al petto. Si parò davanti a Stefano in modo che non potesse non vederla. Non spostò lo sguardo di un millimetro. In preda al panico, lo afferrò per le spalle scuotendolo, ma non successe assolutamente nulla.
“Cazzo, ma vi siete drogati, che vi succede?!” urlò “sono quiiiii!”.
“Porca puttana” sbraitò a quel punto “SO-NO QUI-I!” scandì esasperata.
Corse fuori dalla stanza, lasciò la porta spalancata, recuperò la sua borsetta e attraversò l’intero openspace verso l’uscita senza che nessuno battesse ciglio. Decise che l’unica cosa sensata da fare fosse correre da Laura che lavorava in un salone di bellezza vicino al fiume a non troppa distanza da lì. Corse a perdifiato. Le pareva di essere sospesa in una bolla e pensava che la sua amica avrebbe potuto dare una tiratina al famoso filo che le univa e tutto quello che stava accadendo avrebbe trovato una logica spiegazione.
Quando entrò nel salone la testa le ronzava e le gambe le tremavano, non avrebbe saputo dire se per la corsa o per la paura che la stava divorando.
Laura era chinata verso una cliente a cui stava applicando lo smalto.
Con un filo di voce mormorò: “Laura…”. E mentre si aggrappava a quel nome come fosse la sua ancora di salvezza, saliva la consapevolezza che Laura non l’avrebbe sentita.
Si accasciò lungo la colonna che stava al centro del negozio. Annichilita.
Il suo incubo era entrato dentro la sua vita e lei non avrebbe più potuto trovare l’uscita.
Era diventata trasparente.
Il distacco
Piano piano gli mostrerai l’assurdità delle sue affermazioni o prese di posizione senza dirgli che sono assurde. La presa di coscienza è la punizione peggiore.
Prendere coscienza presuppone la voglia di riavvolgere il nastro e guardarlo con occhi nuovi. Non ne avrà mai desiderio o un motivo per farlo. Semplicemente non ci penserà nemmeno.
Allora arriverà il distacco. Non ti importerà più nulla di avere qualcuno dalla tua parte. Ci stai già tu, dalla tua. E, non imbarazzarti, sei talmente esuberante ed ingombrante, veemente e brillante, che di spazio ne lasci poco accanto a te. Anche se, ma lo sai già, io mi ci stringerei volentieri in quella fettina di ombra che proietti con quelle ossa magre.
Anche tu lo sai già che non voglio. Perché continui a ripetermelo. A distanza di anni, e cioè la cadenza tipica dei nostri incontri, non manchi di dirmelo. La verità è che, ormai, mi sono distaccata anche te.
Vuoi dirmi che il mio essere qui adesso, ascoltarti, capirti, parlarti non ha più alcun valore per te?
Poco. Lo stesso che darei al conoscente che si ferma al bar, di fretta, con l’ombrello sottobraccio e il giornale stropicciato nell’altra mano, a salutarmi un attimo, a dirmi che mi trova bene e che spera di rivedermi presto.
Allora vado.
Non rispose. Lo guardò allontanarsi. E nello stesso istante riprendeva l’attesa senza ansia del loro prossimo incontro.