Resilienza

 

Una frase. Una singola frase ha fatto precipitare una parte importante del mio mondo.

“Tu non sei qui per lavorare!”, se ne uscì il mio capo piombandomi alle spalle mentre brontolavo perché per la milionesima volta la stampante non funzionava e, guarda un po’, ne avevo bisogno proprio perché stavo lavorando.

Mi girai di scatto, lo guardai negli occhi ed esasperata da un logorio che ormai andava avanti da anni, gli ruggii in faccia: “E che cosa ci verrei a fare qui ogni giorno?”

“Di certo, non a lavorare!”, mi rispose con un ghigno arrogante che meritava solo una sberla.

Ho provato una rabbia che di sordo non aveva nulla. Era esplosiva, incontenibile, ribollente. Ero furente, sì, furente.

Per la nota legge del branco, chi ha potere protegge chi ha potere, per cui quando ebbi l’ardire di denunciare l’accaduto venni costretta ad ammettere di aver capito male.

Ma non bastò. L’Ufficio del Personale riuscì a scavarmi la fossa.

“Venuto meno, nella sua attuale collocazione, il clima di serenità indispensabile per poter lavorare proficuamente, verrà assegnata ad altra Unità dove siamo certi potrà continuare a lavorare contribuendo efficacemente al raggiungimento degli obiettivi aziendali”.

In poche parole, sono stata messa in punizione.

Cazzo, io nel mio lavoro era brava. Lo affermo con fierezza. E dalla mia parte avevo le statistiche. I numeri non mentono. Sono lì, parlano chiaro, esprimono in maniera oggettiva la tua produttività, la quantità di lavoro svolta e, nel mio campo, anche la qualità dell’attività stessa.

Ma. In questi casi c’è sempre un ma. Per la mia azienda, il mio ma è l’atteggiamento. Il che, tradotto, significa che non ho mai accettato di tenere un comportamento servile ed ossequioso nei confronti del mio responsabile che avrebbe gradito essere trattato come un boss mafioso anziché come un capo.

C’è, però, un altro dettaglio. Unica donna in un ufficio di uomini. Una donna con una figlia piccola. Una donna che ha chiesto una riduzione oraria del lavoro. Ecco, queste sono le vere colpe. Avere le tette, avere un figlio, aver chiesto il part-time.

Con un calcio nel culo, mi hanno spedito all’inferno.

Sono una giurista, amo spulciare nei fascicoli voluminosi e polverosi per ricostruire una vicenda processuale. Amo le parole, posso discutere per ore sulla posizione di una virgola all’interno di una frase per sperimentare come ne venga stravolto il significato.

Mi hanno privato delle parole, che sono state brutalmente sostituite da numeri, codici di programmazione e operazioni complesse. La morte.

Senza formazione, senza istruzioni, senza compiti chiari era evidente che non avrei mai potuto combinare nulla. Ho preso coscienza di essere stata messa volontariamente in una condizione impossibile.

Mi sono concessa parecchi mesi di abisso, alternando rabbia e depressione, perché mi pareva impossibile uscire dall’incubo in cui ero stata infilata. Sono finita a sgargarozzarmi bottigliette di EN per arginare crisi di pianto incontrollabili.

 

L’istinto di sopravvivenza mi ha portato ad essere inerte. Ho smesso di arrabbiarmi, ho smesso di abbandonarmi all’ansia, ho smesso di preoccuparmi. Ho smesso di prendere l’EN.

E le parole sono diventate la mia ancora di salvezza. Sono loro che riempiono le lunghe ore in ufficio, che altrimenti sarebbero di agonia. Ho iniziato a scrivere, mi sono iscritta ad un corso di editoria, ho preso uno spazio sul web per condividere i miei racconti, sto correggendo le bozze di un romanzo.

Entro in ufficio con il sorriso. Ed è con quel sorriso che sto prendendo la mia rivincita.

Avete voluto punirmi, privandomi della mia professionalità.

Invece mi avete regalato un’opportunità meravigliosa. Mi avete fatto capire quanto io ami scrivere e mi avete anche regalato il tempo da dedicare alla mia passione.

Mi pagate pure uno stipendio per farlo. Coglioni.

Un pensiero riguardo “Resilienza

  1. La conclusione è stata la tua vera rivincita! A me giovane impiegata mi fu detto da un dirigente al quale proponevo una diversa impostazione del lavoro .. CHE IO NON ERO PAGATA PER PENSARE! Dopo tanti anni gli rispondo in un dialogo interiore mai interrotto: che stupido che sei.

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